Donne in vista

9 Domande ad Alba D’Urbano

Alba D’ Urbano nasce a Tivoli nel 1955, dopo aver studiato al liceo scientifico di Tivoli inizia a studiare Filosofia nell’Università “La Sapienza” di Roma. Dopo 3 anni decide di interrompere gli studi per studiare Arte presso l’Accademia di Belle Arti della stessa città. Nel 1977, in pieno attivismo politico, partecipa all’occupazione della Facoltà di lettere. Nello stesso periodo fonda un gruppo femminista nella città di Tivoli insieme ad altre donne. Nel 1984 si trasferisce a Berlino Ovest, dove poco dopo inizia un corso di studi nella UdK “Università delle Arti”.

Dal 1995 al 2021 ha insegnato presso la HGB (Hochschule für Grafik und Buchkunst) di Lipsia.

L’intervista è stata fatta da Lilly Bozzo-Costa in un caffè nel centro di Lipsia. Sarà pubblicata in due puntate.

Alba D’Urbano è stata non solo la prima docente straniera a lavorare presso la HGB (Hochschule für Grafik und Buchkunst) di Lipsia ma anche la docente che ha fatto “scuola”. Alcune delle sue studentesse e studenti sono oggi artist* richiesti in campo internazionale.

1.

Hai iniziato a lavorare diversi anni fa alla HGB, l’Accademia d’Arte e di Grafica” di Lipsia. Da qualche settimana hai concluso il tuo lungo periodo di docenza. Sei stata la prima donna straniera a lavorare in una delle Accademie d’Arte più importanti e antiche della Germania. Puoi fare una sintesi di questi anni? Come era l’inizio, poco dopo il crollo del muro di Berlino, e come è la situazione attuale?

I primi anni non sono stati facili. Prima di arrivare a Lipsia avevo studiato a Roma (Accademia di Belle Arti), a Berlino Ovest (UDK) e a Francoforte sul Meno, dove avevo ottenuto un grant europeo per specializzarmi in campo mediale all’”Istituto per Nuovi Media”. In seguito ho avuto per un anno un incarico di insegnamento come docente alla HfG di Offenbach sul Meno.

Poi, nel 1993, ho risposto al bando di concorso per un posto di docente di “Computer Graphic” alla HGB. Il Muro era caduto da poco più di 3 anni e io non conoscevo la Germania dell’est. Quando sono arrivata per fare l’hearing (lezione di prova) a dicembre del 1993 Lipsia era ancora avvolta in una bruma soffusa che aveva il colore e l’odore della DDR. Viaggiare da Francoforte a Lipsia non significava solo spostarsi nello spazio, ma attraversare al confine strati spazio-temporali diversi, dove anche gli oggetti fisici, attraverso le loro caratteristiche e la loro conformazione, raccontavano storie di universi culturali paralleli. Se si viaggiava in treno, come ho fatto io allora, si assisteva, poco dopo aver passato l’ex confine fra le due Germanie, alla sostituzione della locomotiva con una “Dieselock” (locomotiva Diesel).

Era un viaggio fra vincitori e vinti, tra sistemi economici antagonisti. Le architetture del centro della città di Lipsia parlavano la lingua dell’abbandono e della povertà, eppure si sentiva pulsare nell’aria un grande fermento creativo. Ho sviluppato subito una simpatia per i luoghi e le persone. Per l’apertura che era possibile avvertire da parte degli abitanti della città, una grande curiosità per quello per che arrivava da fuori, per il “diverso”.

Purtroppo l’atmosfera si è trasformata radicalmente già nei primi anni. Coloro che, socializzati all’Ovest, si sono trasferiti nella Germania dell’Est, si sono inseriti rapidamente all’interno delle istituzioni prendendo le redini del “comando”, sia a livello economico che politico. L’espansione di reti lobbistiche occidentali nella Germania dell’Est ha generato per conseguenza fenomeni di esclusione nei confronti di tutti coloro che non ne facevano parte, quindi anche di coloro che avevano vissuto e operato sul posto da decenni, spesso anche in opposizione al sistema politico precedente.

In modo analogo sono cambiati nel corso di qualche anno anche i rapporti di potere all’interno nella nostra scuola, soprattutto nel mio dipartimento, che essendo di nuova formazione, aveva visto l’arrivo di nuovi professori e assistenti provenienti esclusivamente dall’ovest. Costoro, in posizione di potere, hanno usato pratiche di lobbismo maschile fin dall’inizio. Per esempio, a quanto mi è stato riportato in seguito, hanno cercato di mettere al mio posto un collega uomo della Germania Ovest prima del mio arrivo. Oltre a me in questo periodo nel dipartimento di “Arte Media” c’erano soltanto uomini, non è stato facile sopravvivere nonostante l’apertura e la cordialità dei colleghi dell’est, che sono stati sostituiti successivamente un po’ per volta.

Ho vissuto sulla mia pelle fin dall’inizio discriminazione ed isolamento, sia come donna che come straniera. Ho cercato per reazione, dopo aver fatto una psicoterapia che mi ha aiutato a superare questi primi anni di difficoltà ed isolamento, di trovare in altri dipartimenti colleghe con cui cooperare. Così sono nate le collaborazioni con Tina Bara del dipartimento di Fotografia e Susanne Holschbach, dell’Istituto di Teoria. Con loro sono riuscita a realizzare progetti su scala internazionale, alcuni dei quali focalizzati su questioni di genere, orientati al lavoro con il corpo e sul corpo, tesi a sviluppare uno sguardo critico, soprattutto in relazione all’immagine che viene di esso propagata attraverso i mass media. La nostra impostazione era intermediale.

Abbiamo lavorato con i mezzi della fotografia, del video, dell’installazione e soprattutto della performance. Purtroppo la chiave di lettura femminista e la conseguente preponderanza femminile nella mia classe è stata spesso oggetto di sarcasmo e derisione da parte dei colleghi maschi. La mia classe veniva chiamata all’epoca da loro con ironia, senza che io lo sapessi, non “Medien-Klasse”, ma “Mädchen-Klasse”, parola che in tedesco ha un suono simile ma che ha un significato completamente diverso. Invece che “classe dei media” significa “classe delle ragazze”. Solo negli ultimi anni, dopo la rinascita del femminismo a livello globale, la posizione dei miei colleghi è cambiata. Ora sono diventati tutti ferventi femministi. Il loro interesse per i temi e il modo di lavorare che noi abbiamo avuto per anni li ha portare a fare il bando di concorso per la collega che mi succederà per “Arti Performative”.

2.

Lavori spesso con le Accademie di Belle Arti italiane. Roma, Palermo. Come è per te, da italiana espatriata tanti anni fa in Germania, lavorare con l’Italia e con le sue istituzioni?

Insieme al tema del corpo ho affrontato nel corso del mio insegnamento diversi argomenti di natura politica, come quello dell’ambiente, quello dell’attenzione e soprattutto quello della migrazione. Il fine era quello di sensibilizzare gli studenti e le studentesse sui disequilibri che esistono all’interno del sistema socio-politico in cui viviamo, renderli coscienti, responsabili. Molti di questi progetti sono stati il frutto di uno scambio a livello internazionale.

Oltre alle Accademie di Belle Arti di Roma, di Palermo e di Brera, ho lavorato anche con il conservatorio di Frosinone, ho fatto progetti al Politecnico di Milano e insegnato per un anno all’università di Bolzano.

Mi è difficile parlare della situazione italiana in generale, perché le realtà con cui mi sono incontrata e confrontata sono molto diverse. L’esperienza professionale accumulata in Germania mi è stata da un lato d’aiuto nella realizzazione dei progetti, dall’altro forse d’ostacolo, perché le abitudini sviluppate in relazione al contesto tedesco hanno generato talvolta aspettative e modi di comportamento che mi hanno impedito, almeno all’inizio, di agire in modo consono alla situazione in cui sono andata ad operare. Sicuramente il fatto di essere cresciuta in Italia, di conoscere la lingua e la cultura del paese mi ha aiutato in un secondo tempo a sviluppare una comunicazione fluida con i colleghi e le colleghe sul posto e a comprendere le difficoltà di natura economica e burocratica in cui loro si trovano spesso ad agire.

Del resto anche nei progetti fatti a Lipsia, senza collaborazioni internazionali, le difficoltà non sono mancate. Soprattutto se, per professionalizzare gli studenti e le studentesse, i progetti andavano oltre l’ambito scolastico. I problemi economici ed amministrativi, anche in parte comprensibili vista l’ampiezza delle iniziative, erano accentuati talvolta da una rigidità burocratica.

Nelle realtà molto diverse con cui mi sono confrontata in Italia ho trovato spesso competenza ed entusiasmo, senza dei quali non sarebbe stato possibile realizzare progetti così complessi come ad esempio “Palindromi – o il confine dell’immaginario”, frutto di uno scambio con tre colleghe all’Accademia di Belle Arti di Palermo (Serena Giordano, Emilia Valenza e Rosa Persico). Questo progetto è sfociato in una ampia mostra con lavori di studenti e studentesse di entrambe le accademie nelle sale di Palazzo Ziino. Abbiamo trovato grande preparazione e professionalità anche al Politecnico di Milano, dove con il sostegno del Professor Alberto Seassaro siamo state invitate a realizzare con studenti e studentesse del dipartimento di Design due progetti artistici nel laboratorio Lab/Immagine*, con l’appoggio tecnico altamente qualificato del collega Dario Sigona.

Con il Conservatorio di Frosinone e il professor Alessandro Cipriani c’è stata una stretta collaborazione pluriennale che ha permesso, attraverso il programma Erasmus, di fare conferenze alternate di docenti e di avviare uno scambio di studenti e studentesse tra le due istituzioni, allargando l’offerta formativa intermediale delle due cattedre.

Difficoltà di tipo amministrativo e burocratico hanno invece segnato purtroppo la collaborazione con l’accademia di Belle Arti di Roma, dove nonostante l’impegno delle professoresse Laura Salvi e Tiziana Musi non è stato possibile portare a termine un progetto, iniziato e svolto nell’area metropolitana romana.

Anche l’esperienza fatta in veste di docente all’Università Libera di Bolzano, purtroppo è stata costellata da ostacoli di tipo politico-amministrativo, cosa che nonostante gli incontri stimolanti e le collaborazioni con colleghe e colleghi all’interno e all’esterno dell’Università mi ha portato a rinunciare al posto di lavoro e tornare e riprendere la mia attività di docente HGB di Lispia.

3.

Nell’ambito della Medien Kunst (Arte Mediale) o dell’arte in generale si può parlare di arte femminile o maschile?

Per me l’arte è semplicemente Arte, se è arte. Non mi piace creare dei ghetti, con attributi ulteriori. Soprattutto non parlerei di Arte Femminile, forse perché questa definizione mi ricorda un’accezione negativa che si è avuta di essa all’interno del sistema dell’arte fino pochi anni fa. Si parlava di Arte Femminile come di un’arte minore, di secondo livello. La narrativa della “Storia dell’Arte” occidentale era dominata da figure maschili, naturalmente “bianche”.

Suppongo che quando tu parli di “Arte Femminile” ti riferisci a posizioni artistiche anche antecedenti all’Arte Moderna e Contemporanea, a figure femminili che pur non essendo femministe, attraverso la loro scelta di diventare soggetto e di non essere più mero oggetto della rappresentazione hanno generato nelle loro opere uno spostamento – una quasi un’inversione – del punto di vista della visione.

Sicuramente inteso in questo senso è possibile usare questa definizione, nonostante le mie antipatie ;-). Perché lo sguardo di un* divers* non può essere di per sé quello della cultura dominante, lo sguardo di un “uomo bianco”. Riscoprire queste posizioni, che spesso sono state semplicemente dimenticate, e re-inserirle all’interno di una narrazione globale, che contenga anche figure non “occidentali”, rappresenta un passo fondamentale nella storia dell’arte. Non solo rende a loro giustizia, ma colora di diversità la sua narrativa ancora troppo “bianca” e troppo uniforme.

Dagli anni 70 fino ad oggi ci sono artist* legate ai movimenti femministi che lottano per mettere in discussione queste letture. Posizioni che, attraverso il loro “fare” artistico, si battono per la difesa dei diritti delle donne, dei diritti dei “divers*”, focalizzando l’attenzione sulle problematiche di genere, sui disequilibri sociali, sulle strutture, i processi e le rappresentazioni che generano fenomeni come sessismo, razzismo, omofobia, transfobia, ecc. In modo sottile o in modo diretto, poetico o agitatorio. In questo caso parlerei di Arte Femminista, un’arte in cui personalmente mi riconosco.

Fine prima parte dell’ intervista. La seconda parte verrà pubblicata tra una settimana

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